LALIBELA
La Gerusalemme d'Africa!
"All'epoca del Medioevo etiopico, uomini di fede cristiana, ormai
circondati da popoli musulmani, decisero di erigere su un altopiano inespugnabile una nuova città santa, costruendo undici
chiese rupestri scavate nel tufo. Nacque così una delle più grandi meraviglie del mondo, dove ancora oggi le popolazioni
locali confluiscono per celebrare i sacri riti ed i festeggiamenti legati al Natale copto"
Vissuta per secoli nell'isolamento dell'altopiano etiope, Lalibela ha
custodito gelosamente un Cristianesimo impregnato di fede, spiritualità, misticismo, fatto anche di chiese scolpite nella
roccia, di cerimonie solenni e di leggende affascinanti. Oggi Lalibela è poco più di un piccolo sperduto villaggio nella
regione del Wollo, nell'Etiopia settentrionale, ma nel XII secolo, quando ancora si chiamava Roha, era la fiorente e popolata
capitale del regno degli Zagwe, famiglia nobile che governò quando si interruppe la dinastia reale che vantava discendenze da
Salomone e dalla regina di Saba. Nel 1140, nella casa reale venne alla luce un bambino. La leggenda narra che un giorno, il
piccolo venne avvolto nella culla, da uno sciame di api. Un segnale divino che la madre riuscì a decifrare con l'aiuto di una
antica credenza popolare: le api rappresentavano i soldati che in futuro sarebbero stati al servizio del figlio. Il destino del
bambino era segnato; sarebbe divenuto re e per questo venne chiamato Lalibela che in lingua agaw significa "le api riconoscono
la sua sovranità". La notizia contrariò il fratello maggiore Harbay, sovrano in carica, che con il passare degli anni, vedendo
in pericolo il proprio trono, cercò di sbarazzarsi del giovane principe somministrandogli del cibo avvelenato. Dopo tre giorni
di coma, Dio salvò il giovane Gebre Mesqel Lalibela e gli ordinò di ritornare al proprio villaggio e di costruire, in Suo onore,
basiliche che nessuno al mondo aveva mai visto. Così fu; il principe prese il potere, depose Harbay ed iniziò la costruzione
del complesso di chiese che doveva simbolicamente rappresentare Gerusalemme. Questa la leggenda, l'origine mitica, figlia di
un presagio divino, della città sacra di Lalibela. Qui, sull'altopiano aspro e selvaggio, sotto la guida di re Lalibela,
eremiti e contadini cristiani del Medioevo etiopico, con l'ausilio di architetti e maestranze egiziane, realizzarono un sogno
impossibile, costruendo il più straordinario complesso di chiese interamente scavate nella roccia; un vero capolavoro di
abilità ed arte. Gerusalemme, alla fine del XII secolo, era in mano musulmana e nessun pellegrino cristiano poteva sperare di
raggiungerla; i cristiani d'Africa decisero, allora, di ricostruirla sul loro altopiano. Scavarono colline, svuotarono la
roccia delle montagne, aprirono gallerie ed innalzarono, nel ventre della terra, undici cattedrali di pietra unite da un
labirinto sotterraneo di passaggi e cunicoli. Ed infine, come se avessero avuto a disposizione una spada colossale, aprirono
il cuore della montagna per farci passare un piccolo corso d'acqua che chiamarono Giordano. Tutte le chiese, monolitiche,
scavate in un solo blocco di roccia, vennero lavorate dall'esterno. Furono traforate per ottenere navate, porte, finestre; si
scolpirono fregi, archi, altari e colonne, secondo uno stile che presenta chiare influenze axsumite. Sono distribuite su due
siti. Del gruppo settentrionale, fanno parte le chiese gemelle di Bet Golgotha, interdetta alle donne, e Bet Mikael, che ospita
al suo interno la tomba di re Lalibela; la chiesa di Bet Maryam, dedicata alla Madonna, la più antica e l'unica ad essere
affrescata; la minuscola cappella di Bet Meskel; la chiesa di Bet Madhane Alem , la casa del Redentore, imponente e maestosa
ed infine la chiesa di Bet Danaghel, la Casa delle Vergini, costruita in memoria del martirio delle novizie del monastero
femminile di Edessa uccise nel IV secolo per ordine dell'imperatore Giuliano l'Apostata. Del gruppo orientale fanno parte
quattro chiese: Bet Amanuel, considerata una delle chiese più finemente scolpite; Bet Abba Libanos, unica chiesa ipogea, unita
dal tetto alla roccia sovrastante; Bet Merkorios e Bet Gabriel Rufael. Isolata, bellissima, monumentale con le sue alte pareti
di roccia verticali, un perfetto monolito a forma di croce greca incassato nel sottosuolo, è Bet Giyorgis, la casa di San
Giorgio; la più recente e la più elegante fra le costruzioni di Lalibela, l'unica a non essere coperta dagli orribili tetti in
lamiera che oggi proteggono tutte le altre chiese dalle intemperie. Per secoli Lalibela è stata una meta irraggiungibile. Oggi,
è possibile arrivarci in aereo, in un'ora di volo da Addis Abeba, o tramite "la strada degli Italiani", la tortuosa e panoramica
carrozzabile costruita nel secolo scorso. Realizzata durante il periodo coloniale, sale ai 2.700 metri dell'altipiano regalando
vedute mozzafiato, grazie ad opere di alta ingegneria, tuttora presidiate da postazioni militari, a testimonianza della grande
importanza che ancora oggi rivestono nell'economia del Paese e del lavoro svolto da operai e militari italiani durante il
periodo dell'occupazione. Fanno da sfondo, gole rocciose, verdi vallate, pittoreschi mercati e piccoli villaggi dai tukul
(capanne), ricoperti da un tetto di paglia. E' la regione degli Oromo, il più numeroso gruppo etnico d'Etiopia e degli Amara,
le cui donne sorridenti ed affascinanti colpiscono per la bellezza e l'eleganza, evidenziata dai lunghi abiti colorati
impreziositi da vistose collane di vecchie monete. Avvicinandosi a Lalibela, appaiono i primi gruppi di pellegrini; avvolti in
lunghi e sudici shamma, camminano nella polvere sollevata dal vento in una processione biblica che non ha eguali. Sono uomini,
donne, bambini, monaci. Solo quando giungeranno a destinazione, potranno inginocchiarsi davanti alle chiese di pietra ed in
cambio delle loro povere offerte, sfiorare con le labbra, le sacre croci che i sacerdoti estraggono dalle ricche vesti. Nelle
strette viuzze del villaggio, decine di storpi e di mendicanti, seduti uno accanto all'altro fin dalle prime luci dell'alba,
sono in attesa di pellegrini e turisti a cui chiedere, sussurrando con un lamentoso filo di voce "per Cristo, per Cristo",
qualche spicciolo o un poco di cibo. Nel silenzio, rotto dal rumore sordo dei passi e da qualche singhiozzo, passa un funerale;
sono quasi tutte donne, fasciate dalle bianche vesti ad accompagnare un corpicino avvolto in un lenzuolo, portato a braccia da
un uomo. Sul loro viso oltre al dolore, rassegnazione; in Etiopia la mortalità infantile è ancora elevata e purtroppo anche
malattie da noi considerate banali possono essere fatali.
LE TRADIZIONI DEL NATALE COPTO Nei giorni che precedono il Genna, la festa del Natale (6-7 gennaio),
Lalibela viene invasa da una fiumana di pellegrini, giunti a piedi o con vecchi autobus da ogni parte del Paese. E' quella
stessa fiumana che, nella notte di Natale, risale lo stretto cunicolo, inciso nella roccia, che conduce a Bet Maryam, la Casa
di Maria. Per migliaia di persone, è una fredda notte di preghiera. Preti e diaconi cantano e danzano al ritmo scandito dai
tamburi e dal tintinnio dei sistri, i sonagli dorati agitati ad ogni passo di danza. È una cantilena che continua senza soste
fino all'alba, quando il corteo dei sacerdoti sale a schierarsi, insensibile a ogni vertigine, sul bordo della voragine che
delimita il fossato entro cui è stata scolpita la chiesa. Al sorgere del sole, nel chiarore improvviso del nuovo giorno,
esplode liberatorio e gioioso un canto: "È nato, è nato". Dopo la lunga veglia notturna ed un pasto frugale a base di injera i
pellegrini in quello stesso giorno, raccolte le loro povere cose, si rimettono in cammino, verso lontani e sperduti villaggi.
Ma non tutti riprenderanno la via del ritorno, c'è chi rimarrà nella città santa aspettando il Timkat, la festa dell'Epifania,
l'ultima grande festa del Natale copto, che non ricorda, come nella tradizione cattolica, l'adorazione dei Magi, bensì il
battesimo di Gesù ad opera di Giovanni Battista nelle acque del Giordano. Un'attesa lunga dodici giorni, vissuta di elemosina
e preghiera. Il 18 gennaio, giorno della Keterà, vigilia del Timkat, i tabot, urne sacre che rappresentano simbolicamente
l'Arca dell' Alleanza, lasciano i maqdas, i tabernacoli delle chiese in cui sono custodite. Avvolte in paramenti sacri che ne
celano la vista, con solenni processioni vengono trasportate fino alla vasca battesimale. Sono sorrette dai sacerdoti che
indossano i ricchi abiti cerimoniali, su cui spiccano preziosi ricami in filigrana d'oro; accanto a loro i diaconi reggono
ombrelli damascati, i cui disegni raffigurano la volta celeste. Nella lunga notte antecedente il Timkat, si ricrea la magica
atmosfera della vigilia di Natale. Nei fossati intorno alle chiese la solita folla di pellegrini, prega accompagnata dal
tintinnio dei sonagli agitati dai sacerdoti: uomini avvolti negli shamma di cotone, donne che si riparano dal freddo con
lunghe tuniche bordate da ricami colorati, vecchi e bambini, mendicanti ed eremiti, che dopo essersi isolati dal mondo per
mesi e mesi, ora si mescolano alla folla, cantano interminabili e ossessive litanie, seguendo il coro dei diaconi disposti
ordinatamente sull'orlo del baratro che delimita il fossato. All'alba, quando diaconi e chierici si dispongono attorno alla
vasca battesimale, sorreggendo lunghe candele di sego, le nenie notturne cessano. E' l'inizio del Timkat. Alle loro spalle una
folla straripante attende con impazienza l'attimo fatidico, il momento in cui l'Abuna, il vescovo della tradizione cristiana
copta, in piedi sui bordi della grande vasca ricolma d'acqua attende che il primo raggio di sole, sbucando fra le vette dei
monti Lasta, inondi con la sua luce calda, le fredde ombre dei presenti. Alzata la croce d'oro al cielo, con un rapido
movimento, la immerge nella vasca ed agitando l'acqua recita la propria benedizione. In un attimo al silenzio fa seguito
un'esplosione euforica, fatta di ebbrezza, di felicità e di grida di giubilo. È come se l'alba del giorno più sacro del
calendario religioso etiopico fosse una liberazione improvvisa dai problemi di ogni giorno. In un tourbillon di schizzi,
l'acqua viene gettata sulla folla; le madri aspergono i capelli dei figli più piccoli mentre i ragazzi sono i primi a
gettarsi nella vasca santificata. La gente vuole bagnarsi il più possibile, mentre i turisti sorpresi ed intimoriti, cercano
di ritrarsi. Ora sacerdoti e fedeli, possono rifocillarsi con injera e verdure speziate. La giornata è appena iniziata, fino a
sera sarà un susseguirsi di litanie, musiche, danze, preghiere e processioni. E solo quando i sacerdoti varcheranno le soglie
scolpite nella roccia, per riporre i tabot nei tabernacoli delle chiese, improvviso, sul villaggio calerà il silenzio.
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