" Sabaydee "
Attraverso l'antico regno del "milione di elefanti", per raggiungere
dalle rovine di Champasak, esempio dell'architettura khmer e dall'altopiano del Bolaven, terra di etnie, di foreste rigogliose,
di piantagioni di caffè, le aspre montagne dell'estremo nord, crogiolo di lingue e tribù, in cui le isolate minoranze etniche
ancora vivono nel rispetto di antiche tradizioni, seguendo ritmi e stili di vita fermi nel tempo. Senza tralasciare, strada
facendo, Vientiane, tranquilla città, in cui, un caleidoscopio di stili architettonici si fondono e riflettono una mescolanza
di influenze; Luang Prabang con la sua atmosfera autentica e pittoresca, i magnifici templi ed i monaci dalle vesti color zafferano;
Phonsavan e la misteriosa Piana delle Giare, una delle aree che negli anni della guerra del Vietnam subì i più devastanti
bombardamenti, che la storia recente ricordi.
Domenica 28 settembre - In una splendida ed assolata giornata settembrina,
raggiungiamo con Daniela e Roberto, da qualche anno nostri abituali compagni di viaggio, l'aeroporto di Milano Malpensa. Voliamo
per la prima volta con Etihad, la compagnia di bandiera degli Emirati Arabi Uniti. Alle 20,45, dopo un volo tranquillo caratterizzato
da un ottimo servizio a bordo, atterriamo ad Abu Dhabi. Trasferimento al terminal e nuovo imbarco, quasi immediato, alla volta di
Bangkok.
Lunedì 29 settembre - Dopo aver trascorso la notte in volo, alle 7,30
atterriamo all'aeroporto di Suvarnabhumi. Inaugurato due anni fa, il modernissimo scalo di Bangkok, è ormai il più importante crocevia
per le rotte aeree del sud-est asiatico. Con una lunga camminata attraverso gli interminabili corridoi dell'imponente costruzione che
si sviluppa su un fronte di circa millequattrocento metri, raggiungiamo i controlli per l'immigrazione; recuperati i bagagli, alle 9
siamo all'uscita del terminal. Decidiamo di raggiungere in taxi la stazione degli autobus di Mo Chit, situata nella parte
settentrionale della città. In trenta minuti, utilizzando la trafficatissima autostrada che collega le località turistiche costiere
alla capitale, raggiungiamo la stazione, punto di partenza per i mezzi pubblici diretti verso il nord ed il nord-est della Thailandia.
Seppur con qualche difficoltà, visto che nessuno parla inglese, riusciamo ad acquistare i biglietti e a prendere l'autobus per Ubon
Ratchathani, previsto per le 9,50. Lasciata Bangkok, ci dirigiamo, percorrendo l'autostrada n.1, verso Saraburi, per proseguire,
attraverso una regione pianeggiante e paesaggisticamente insignificante, punteggiata di piccoli borghi e grandi insediamenti industriali,
dapprima, in direzione di Nakhon Rathasima e successivamente, di Ban Phai e Yasothonin. Le abbondanti precipitazioni delle settimane
precedenti hanno provocato inondazioni ed allagamenti in tutta la Thailandia nord-orientale e causato l'interruzione di strade e
ferrovie. Per raggiungere Ubon siamo obbligati ad una lunga deviazione con conseguente dilatazione dei tempi di percorrenza. Alle 21,
dopo undici ore di viaggio ed una serie interminabile di fermate per far salire o scendere i passeggeri, siamo finalmente al terminal
di Ubon Ratchathani. Dopo esserci annotati gli orari di partenza dei bus che giornalmente fanno servizio con Pakse, in Laos,
raggiungiamo in tuk-tuk l'hotel Ratchathani situato al centro della città. Anche se stanchi, essendo in viaggio da trentasei ore,
decidiamo di sgranchirci le gambe e di fare quattro passi nel vicino parco di Thung Si Mewang che si estende intorno ad un monumento
dorato simboleggiante un'elaborata candela votiva. Nella brezza serale, gigantesche farfalle, grosse come il palmo di una mano, sono
adagiate sull'erba umida e sul selciato, incuranti della gente che passeggia sotto alberi secolari, mentre i venditori ambulanti di
cibo, serviti gli ultimi clienti, stanno cominciando a smontare i loro improvvisati ristoranti.
Martedì 30 settembre - Ci svegliamo con la pioggia, una costante, che
purtroppo, caratterizzerà questo viaggio. Riparati come meglio possiamo i bagagli, facciamo ritorno al terminal con il tuk-tuk, a cui
avevamo dato appuntamento ieri sera e che ci sta attendendo di fronte all'hotel. Lasciamo Ubon con l'autobus delle 9,30; dal finestrino
la campagna ci appare in molti punti allagata, per l'esondazione dei corsi d'acqua. Dopo aver costeggiato il lago di Sirinthon, enorme
bacino artificiale, giungiamo al posto di frontiera di Chong Mek. Sbrigate le formalità all'immigrazione thailandese, a piedi,
percorriamo il breve tratto che ci separa dalla dogana laotiana. Espletiamo le pratiche per la richiesta del visto ed i controlli
doganali, senza incorrere in problemi ed intoppi burocratici; in meno di mezz'ora siamo nuovamente all'autobus. Gli altri passeggeri,
cittadini thailandesi o laotiani, sono già al loro posto e stanno aspettando noi, unici occidentali a bordo. Eccoci in Laos, la meta
di questo nostro viaggio. Condizioni meteo e paesaggio non sono cambiati; i piccoli villaggi che attraversiamo ci sembrano, però, più
rustici e poveri rispetto a quelli thailandesi. Dopo tre ore di viaggio, giungiamo sulle rive del Mekong, che attraversiamo sul lungo
ponte costruito in cooperazione da laotiani e giapponesi. Siamo ormai a Pakse; il terminal degli autobus, qui, come in tutti i centri
che toccheremo nel corso del viaggio, si trova all'estrema periferia della città e dobbiamo prendere un tuk-tuk per raggiungere il
centro città. Per la scelta dell'hotel ci basiamo sulle indicazioni della Lonely Planet, guida, che pur essendo sempre utile,
presenta per alcune località, lacune ed imprecisioni e contrariamente a quanto riportato sull'ultima edizione italiana, pubblicata a
novembre 2007, non sembra essere stata aggiornata in tempi recenti. Ci fermiamo all'hotel Salachampa, edificio risalente all'epoca
coloniale, interamente ristrutturato e circondato da un piccolo giardino, di proprietà di un signore che ha vissuto per molti anni
in Francia. Usciamo a piedi per la cittadina, il cui centro, pur occupando una superficie abbastanza estesa, è concentrato in poche
vie, su cui si ergono alcune vecchie case coloniali, in condizioni assai precarie; l'edificio meglio conservato è quello che oggi
ospita il Palazzo della Cultura cinese. Raggiungiamo l'animato mercato alimentare ed il vicino French bridge, il ponte sul fiume Se
Don, affluente del Mekong, su cui si affaccia il Champasak Sangha College, scuola frequentata da giovani monaci, situata all'interno
di un tempio buddista.
Mercoledì 1 ottobre - Non ancora abituato al fuso orario, mi sveglio
ai primi chiarori del giorno. Esco da solo per le strade deserte; alcuni giovani monaci stanno facendo rientro, con passo veloce, al
proprio monastero, dal consueto giro per la questua mattutina. Al mercato, le donne cominciano ad allestire le bancarelle e ad esporre
le loro mercanzie. Rientro in albergo e con i compagni di viaggio, mi reco al vicino Lao Chaleun Hotel, dove ieri nel pomeriggio
abbiamo preso accordi per il noleggio di due motociclette. Ci consegnano due scooter Suzuki Smash da 110 cc. Facciamo un breve giro di
prova; a parte qualche particolare che non funziona (clacson, frecce), sembrano in discrete condizioni. Fatto il pieno di carburante,
imbocchiamo la "route 13", la direttrice che porta a Muang Khong ed al confine con la Cambogia. La strada asfaltata, è in buone
condizioni; il traffico è limitato a qualche motocicletta. Dopo una trentina di chilometri, percorsi in perfetta solitudine,
imbocchiamo la strada secondaria che conduce al villaggio di Ban Muang, punto di imbarco per attraversare il Mekong. Veniamo fatti
salire su un traghetto, costituito da una piattaforma in legno, ancorata con corde, a due barchette in legno spinte da un motore
fuoribordo, su cui vengono fatte salire tre moto ed i relativi passeggeri. Lentamente, lottando contro la forte corrente che spinge la
piccola imbarcazione verso valle, in una quindicina di minuti, attraversiamo il fiume, in questo punto molto largo. Sbarchiamo al
villaggio di Ban Phaphin; dopo aver attraversato l'abitato di Champasak proseguiamo per otto chilometri lungo la stretta strada
asfaltata che si snoda in un piacevole contesto agreste, fra risaie ed abitazioni costruite su palafitta, fino a raggiungere il Wat
Phu Champasak, antico complesso religioso khmer, edificato fra il IX° ed il XII° secolo, ai piedi del monte Phu Pasak. Pagato il
biglietto d'ingresso, accediamo al più importante sito archeologico laotiano, che nel corso dei secoli è stato un luogo di culto
induista, un centro religioso khmer e dal XVI° secolo, tempio buddista. Lasciate le moto nei pressi del Baray, il bacino
cerimoniale, a piedi, imbocchiamo il lungo viale, delimitato ai lati da cippi in pietra simboleggianti i Phaws di Shiva. Raggiungiamo
le rovine dei "padiglioni della venerazione", templi in arenaria, decorati con bassorilievi e sculture, edificati nell'epoca in cui
furono costruiti i templi cambogiani di Angkor e da cui si diparte una ripida e sconnessa scalinata che sale al livello superiore.
Qui, oltre al santuario, venerato ancora oggi, si trovano alcuni bassorilievi scolpiti nella roccia. Nei pressi di una sorgente sacra,
le cui acque sgorgano dal fianco della montagna sovrastante, su un grande masso è stato scolpito un bassorilievo raffigurante la
Trimurti, la sacra triade hindu composta da Shiva, Vishnu e Brahma. Poco lontano, fra gli alberi, nascosta dalla vegetazione, la
roccia del coccodrillo, figura stilizzata di un animale che era ritenuto dai khmer, una semi-divinità. Fa caldo ed il tasso d'umidità
è molto elevato. E' piacevole riposarsi, seduti sulle antiche pietre dei terrazzamenti, all'ombra di piante secolari ed ammirare il
panorama che spazia dalle rovine dei livelli inferiori, ai bacini, alla pianura con i campi di riso, al Mekong che scorre in
lontananza. Prima di lasciare il complesso, ci fermiamo al museo, in cui sono esposti alcuni stupendi pezzi archeologici, rinvenuti tra le
rovine del Wat Phu. Dopo una bella mattinata soleggiata, le nuvole cominciano a fare minacciose la loro comparsa. Ci rimettiamo in
viaggio, percorrendo a ritroso la strada dell'andata; rapidamente il tempo volge al peggio e rientriamo sotto una pioggia battente,
che ci accompagna fino a pochi chilometri da Pakse.
Giovedì 2 ottobre - Con il sole che splende radioso, prepariamo il bagaglio,
che porteremo con noi nel giro di quattro giorni sull'altipiano di Bolaven. Un bagaglio ridotto, costituito dal minimo indispensabile,
che incastriamo e leghiamo nei cestelli posizionati sul frontale delle moto. Il bagaglio rimanente, lo lasciamo in custodia all'hotel
con cui abbiamo stipulato il contratto di noleggio; lo riprenderemo al nostro ritorno, alla riconsegna dei mezzi. Alle 9 lasciamo
Pakse. Imbocchiamo dapprima la "route 13", già percorsa ieri per recarci a Champasak e successivamente la "route 16", che percorriamo
fino all'incrocio posto poco oltre il cippo del chilometro venti, dove svoltiamo in direzione di Saravan. Asfaltata, assolutamente
deserta, la strada si snoda con lunghi tratti in discesa fra risaie, campi coltivati e piccoli villaggi. Nei pressi di un piccolo
agglomerato di case, foro la gomma anteriore. In Laos, ogni villaggio ha il suo gommista; quello, presso cui ci siamo fermati, si è
assentato per recarsi a Pakse. Ci viene in aiuto un ragazzo che si presta per effettuare la riparazione. Si è lacerata la camera d'aria
in corrispondenza di uno dei tanti rappezzi; non è più riparabile e dobbiamo procedere alla sostituzione. Grazie al suo intervento e a
quello di alcuni abitanti del villaggio venuti a curiosare, come si è sparsa la voce della nostra presenza, in mezz'ora siamo in grado
di ripartire. Proseguiamo in un continuo saliscendi fra colline coltivate e piantagioni di alberi da frutta, a cui si alternano, tratti
di foresta pluviale e radure con piccoli villaggi. Il sole è caldo ma la brezza rende il viaggio piacevole. Dopo una ventina di
chilometri, in una zona collinare, ricca di corsi d'acqua e foreste, foro per la seconda volta. E' la gomma posteriore a cedere e
sempre a causa del distacco di una riparazione precedente. Abbiamo oltrepassato da poco un villaggio, lentamente vi facciamo ritorno.
Il gommista nonchè meccanico del villaggio, sta comodamente riposando su un'amaca nel cortile di casa. Lo svegliamo e dopo aver fatto
riparare lo pneumatico, approfittiamo delle sue conoscenze meccaniche per un controllo alle moto. Facciamo registrare i freni, le
catene, troppo lasche, e controllare l'olio; la moto di Roberto che faceva un rumore poco rassicurante ne è quasi completamente priva. Ora
possiamo proseguire; dopo un'ottantina di chilometri, attraverso estese piantagioni di banane, raggiungiamo il bivio per Tat Lo, punto
di arrivo della tappa odierna. Visitati alcuni alberghi, optiamo per la Saise guesthouse, i cui bungalows immersi nel verde di un
bellissimo giardino con fiori e piante tropicali, sono stati costruiti sulle sponde del fiume, nei pressi della cascata di Tat Hang.
Il cielo si è ormai rannuvolato, lasciati i bagagli, risaliamo in moto e ci dirigiamo ai villaggi katu ed alak, sulle colline. Lungo
la strada, la gente, in prevalenza donne, sta rientrando alle proprie abitazioni, dopo una giornata di lavoro nei campi. Con
l'oscurità ormai incipiente ed il cielo sempre più minaccioso facciamo ritorno a Tat Lo.
Venerdì 3 ottobre - Lo scrosciare violento ed incessante della pioggia ci ha
tenuto compagnia fino all'alba. Quando ci ritroviamo con i nostri compagni di viaggio nel verdissimo giardino fra piante e fiori
grondanti di pioggia, appare un barlume di sereno. Risaliamo in sella alle nostre moto. Percorriamo la strada che sale ripida allo
sbarramento della centrale idroelettrica, dove lasciati gli scooter, proseguiamo a piedi verso un villaggio circondati da un nugolo di
bambini. Accompagnati dai più grandicelli ci inoltriamo fra le abitazioni, palafitte in legno, disposte a semicerchio intorno ad uno
spiazzo erboso, al centro del quale, una costruzione più grande, funge da luogo di ritrovo comune. Ci inoltriamo nella foresta e
percorrendo un sentiero scivoloso per la pioggia della notte, ci spingiamo fino ai piedi della cascata di Tat Suong. Alle 9 siamo
nuovamente in albergo, sistemati i bagagli sulle moto, riprendiamo il giro dell'altopiano. Proseguiamo per quattro chilometri sulla
"route 20"; al villaggio di Ban Beng, dopo aver fatto benzina, imbocchiamo la strada sterrata che sale verso l'altipiano, in un
alternarsi di pendii boscosi, campi coltivati e villaggi. A Tha Thaeng, ritroviamo l'asfalto, che ci accompagnerà nella più totale
assenza di traffico fino a Sekong, dove giungiamo nel primo pomeriggio. Troviamo subito la guesthouse scelta tramite i consigli della
Lonely, un'ottima sistemazione nella casa di un ex-funzionario delle Nazioni Unite. Lasciate le moto, ci spostiamo a piedi; Sekong pur
essendo costituita da pochi edifici, occupa una superficie molto estesa con grandi spazi incolti tra le abitazioni. Raggiungiamo il
mercato; il sole che ci ha accompagnato durante il trasferimento odierno ha lasciato spazio alle solite nubi minacciose. In poco tempo
si scatena un violento temporale, cerchiamo riparo all'interno dell'area coperta, in compagnia delle donne che hanno abbandonato
precipitosamente le bancarelle poste all'esterno, con i prodotti dei loro campi. Con il cessare della pioggia, riprendono le attività;
noi ci mettiamo alla ricerca del centro laotiano degli ordigni inesplosi. Fatichiamo a trovarlo in quanto le indicazioni della Lonely
sono molto approssimative; lo rintracciamo dopo aver setacciato una vasta area. E' una piccola costruzione dietro al Ministero delle
Finanze ed ha l'ingresso nella via che dal mercato porta alla "route 16", la strada che collega Tha Theang con Attapeu. E'
riconoscibile per due grosse bombe d'aereo posizionate ai lati del cancello. Veniamo accolti da un ragazzo che fa parte dello staff
che si occupa dello sminamento. Mentre ci fornisce interessanti ed esaustive spiegazioni in inglese, ci accompagna ad una piattaforma
di cemento su cui sono lasciate ad arrugginire bombe d'aereo di grandi dimensioni, bombe più piccole di fabbricazione cinese, i gusci
delle famose e famigerate bombe a grappolo, bombe a mano, detonatori, proiettili. Daniela e Roberto ritornano in albergo, noi ci
rechiamo nuovamente al mercato che nel frattempo si è animato per la presenza di numerosi venditori di cibo; su una bancarella, fra
polli e galline pronti per finire in padella, ci colpisce la presenza di un'iguana.
Sabato 4 ottobre - Di buon ora ci rechiamo al mercato per acquistare alcuni
dolci, che abbiamo avuto modo di apprezzare ieri e che costituiscono la nostra prima colazione odierna. Una breve sosta dal meccanico
per far mettere i bulloni alle pedane del passeggero di entrambe le moto, che abbiamo perso e ci rimettiamo in viaggio. Il sole
splende in cielo ma le solite nuvole nere già si addensano, in lontananza, verso l'altopiano. Dopo aver seguito per quattordici chilometri, la
strada asfaltata per Attapeu, ci dirigiamo, lungo una pista sterrata, ai villaggi che sorgono sulle rive del fiume Sekong. Proviamo
a raggiungerli, ma il fango, i lunghi tratti allagati ed i rimbrotti di Adriana e Daniela, ci costringono alla resa. Ritornati sulla
"route 16", proseguiamo fino a Bengkhua Kham, villaggio situato al km. 25, punto di partenza della pista con il fondo in laterite che
conduce a Paksong. La sede stradale, in alcuni punti molto stretta, sembra sparire tra la vegetazione rigogliosissima della foresta
pluviale; ad un primo tratto pianeggiante, si succedono tratti ripidi e sconnessi che si inerpicano sull'altipiano. Ci fermiamo in un
piccolo villaggio, un agglomerato di palafitte con il tetto in paglia, abitato dai Laven. La gente è intenta nelle occupazioni
quotidiane; le donne ad ottenere la farina pestando il mais nei mortai, a lavare i panni e ad accudire i focolari accesi all'interno
di capanne invase da un fumo acre. Gli uomini stanno intrecciando fibre ricavate dalle canne di bambù per costruire un grosso
contenitore destinato a raccogliere le pannocchie di granoturco. Una moltitudine di bambini ci segue curioso nella nostra visita.
Riprendiamo la salita verso l'altopiano. In pochi minuti le condizioni meteo peggiorano, il tempo di ripararci con le mantelline e si
scatena il diluvio. La pista si trasforma in un pantano, veri e propri torrenti scavano solchi profondi sulla strada. Procediamo a
fatica e con cautela, il fiume d'acqua che scorre sulla pista ci nasconde l'insidia di buche e canali profondi. Procediamo infangati
ed inzuppati in un continuo susseguirsi di verdissime colline. Non ci sono villaggi, non c'è presenza umana. Non c'è nessuno, solo
foresta, pioggia e fango. Attraverso i rari squarci che si aprono nella vegetazione, intravediamo bellissime ed altissime cascate,
salti d'acqua che spariscono nel buio del sottobosco. La nostra concentrazione è tutta per la guida degli scooter, che per le
condizioni meteo e del fondo stradale, stanno facendo miracoli. Raggiungiamo l'altipiano e nel piccolo villaggio di Taot, ci concediamo
una breve sosta; la pioggia che nel frattempo ha perso d'intensità ed il fondo viscido e fangoso, ci costringono a procedere lentamente
e con estrema cautela. Le nubi, sempre più scure che si inseguono vorticosamente non promettono nulla di buono. Ed infatti, dopo poco,
si scatena un altro nubifragio. Si abbatte su di noi mentre attraversiamo un'area disabitata, in cui è la foresta pluviale, la padrona
incontrastata. Quando dopo alcuni chilometri, scorgiamo alcune abitazioni a palafitta, non esitiamo a fermarci per ripararci sotto la
veranda di una casa tra la curiosità dei bambini che vi abitano e che ci osservano guardando tra le fessure del pavimento dal piano
sovrastante. Aspettiamo inutilmente che la pioggia diminuisca d'intensità, alle 14,30 con oltre trenta chilometri da percorrere, decidiamo
di rimetterci in viaggio. In queste scure giornate di pioggia, le tenebre calano intorno alle 17,15, e non vorremmo, viste le
condizioni della pista, avere qualche problema e trovarci in difficoltà per il buio. Dopo esserci fermati per un rabbocco di benzina
ad un distributore, consistente in un piccolo capanno con due bidoni di carburante in cui è inserita una pompa manuale che serve per
il rifornimento, affrontiamo l'ultimo tratto di strada che conduce a Paksong, una pista di fango dal fondo impossibile, in cui Adriana
e Daniela faticano a rimanere in piedi, quando sono costrette a scendere dalle moto, per consentirci di superare tratti particolarmente
ostici e difficili da affrontare con i mezzi di cui disponiamo. Finalmente alle 16,30, fradici, infangati, stanchi ed infreddoliti,
(Paksong è a 1.315 metri s.l.m.) giungiamo a destinazione; alla prima guesthouse che troviamo sulla nostra strada, ci fermiamo per la
notte. Non vediamo l'ora di buttarci, sotto una doccia bollente.
Domenica 5 ottobre - La pioggia caduta per tutta la notte, con il fare
del giorno è scemata di intensità. Il primo contrattempo della giornata si presenta quando con il miglioramento delle condizioni
meteorologiche, decidiamo di rimetterci in viaggio. Lo pneumatico posteriore della moto di Roberto è a terra. Raggiungiamo per la
riparazione un fornitissimo ed attrezzato gommista, situato nelle vicinanze del mercato, che visitiamo. Non è molto animato, ci
aggiriamo tra la bancarelle che espongono tutte, gli stessi oggetti, importati da Cina e Vietnam. Lasciamo Paksong e facciamo ritorno
a Pakse. Lungo la strada ci fermiamo ad osservare la cascata di Tat Fan, due bracci d'acqua costituiti dai rami paralleli del fiume
Huay Bang Lieng, che precipitano con un salto di oltre centoventi metri nella foresta sottostante. Scendendo dall'altopiano tra estese
coltivazioni di caffè, il tempo migliora; con il sole ritorna il caldo ed avvicinandoci a Pakse, anche l'afa. Passiamo parte del
pomeriggio lungo il Mekong, gustando dell'ottimo pesce in un piccolo ristorante. Riconsegnate le moto e recuperati i bagagli, con un
tuk-tuk raggiungiamo la stazione degli autobus, avendo prenotato, nel pomeriggio, quattro cuccette sull'autobus notturno,
diretto a Vientiane. L'esperienza del bus a cuccette (a misura di laotiano e quindi strette e corte, ma ciononostante abbastanza comode)
ancora ci manca; purtroppo non dura molto. Dopo poco più di un'ora dalla partenza, in piena campagna ci fermiamo per un guasto al
motore. Gli autisti con l'aiuto di alcuni passeggeri cercano di risolvere il problema, ma dopo svariati ed inutili tentativi decidono
di chiamare con il telefono cellulare, il terminal di Pakse. Un paio d'ore d'attesa ed ecco sopraggiungere un autobus sostitutivo che,
purtroppo, ha solo i tradizionali sedili reclinabili.
Lunedì 6 ottobre - Dopo esserci trasferiti con i bagagli sul nuovo mezzo
alle 0,30 possiamo ripartire. Viaggiamo tutta notte senza più fermarci ed alle 9 arriviamo al terminal di Vientiane. Il cielo è
nuvoloso; con un tuk-tuk ci facciamo portare alla guesthouse "Villa Sisavad", piacevole sistemazione con piscina che abbiamo scelto
dopo averne visionato il sito web su internet. Ci facciamo una doccia per ritemprarci del viaggio notturno, rivelatosi, non avendo
potuto riposare come avremmo voluto, più pesante del previsto. Alle 10,15 siamo pronti per iniziare la visita della città. Ci muoviamo
a piedi; raggiungiamo il Patuxai, la Porta della Vittoria, un arco di trionfo in cemento eretto negli anni sessanta in onore dei caduti
in guerra, al centro di un parco situato a poca distanza dalla nostra guesthouse. Camminando per i larghi viali alberati, raggiungiamo
il Talat Sao, il principale mercato della città, in cui sono in vendita merci provenienti da tutto il sud-est asiatico. Una miriade di
bancarelle vendono articoli tecnologici, elettrodomestici ed abbigliamento; un piccolo spazio è riservato al settore orafo. Sui banchi
di lavoro, accanto ai fornelli in terracotta utilizzati per fondere il metallo prezioso, mani esperte creano opere artigianali. Ci
portiamo allo stupa buddista di That Dam, uno dei più antichi di Vientiane. E' conosciuto come lo stupa nero, per il colore scuro dei
mattoni con cui è stato edificato; la lamina d'oro che lo rivestiva pare sia stata asportata durante i saccheggi del 1828, anno in cui
la città fu rasa quasi completamente al suolo dopo che il Paese aveva tentato di rivendicare la propria indipendenza dal Siam.
Transitiamo di fronte all'imponente Palazzo Presidenziale, situato all'interno di un parco, per recarci al Wat Si Saket. E' un tempio
bellissimo, in assoluto uno dei più belli di tutto il Laos; lungo le pareti sui quattro lati del chiostro ligneo, migliaia di nicchie
contengono altrettanti Buddha di ogni materiale e dimensione, sopravvissuti alle distruzioni perpetrate dai siamesi. Le statue, da
quelle minuscole disposte all'interno delle nicchie, a quelle riprodotte a grandezza naturale, presentano infinite differenti
espressioni. Poco distante sorge il Haw Pha Kaeo, tempio buddista ed allo stesso tempo, museo nazionale di arte sacra; circondato da
un bel giardino fiorito, conserva all'interno una interessante collezione di statue di Buddha, in pietra, ceramica e bronzo, esposte
insieme a molti altri oggetti. A piedi raggiungiamo il lungo fiume, dove al Pvo noleggiamo due scooter per il fine pomeriggio odierno
e per domani. In moto, ci rechiamo a visitare i templi più distanti; il Wat Mixai, il Wat In Paeng, che presenta gradevoli
dipinti in facciata ed il Wat Mahawiman. Percorrendo Th. Setthathilat, una delle vie centrali di Vientiane, che attraversa tutta la
città, raggiungiamo il tempio di Wat Si Muang, dove numerosi fedeli sono raccolti in preghiera. E' una delle zone più frequentate della
capitale; nel Sim, la "sala delle ordinazioni", è custodito il lak meang, il pilastro sacro in cui, secondo la tradizione,
risiede lo spirito protettore della città. Ritorniamo al Mekong, per recarci a cena in un ristorante sul fiume, nella speranza,
purtroppo vana, di riuscire a goderci un tramonto sul grande fiume.
Martedì 7 ottobre - Dopo una notte di pioggia, ci ritroviamo sul bordo della
piscina a scrutare il cielo di un bel grigio cupo. Troviamo la moto di Roberto con la gomma posteriore a terra; ci rechiamo per la
riparazione da un gommista situato a poche decine di metri dalla nostra guesthouse. Nel locale accanto, una decina di bambini,
seduti su seggiole di plastica colorata, di fronte a vecchi televisori, si sfidano, chiassosi, con i video-giochi. Sull'altro lato
della strada, un piccolo mercato rionale; sulle bancarelle fanno bella mostra di sè, disposte su file ordinate, grosse ciotole ripiene
di insalate e minestre mentre i bracieri accesi attendono i pesci che le donne preparano per la cottura, utilizzando stecche di bambù.
In moto attraversiamo la città; transitiamo per il Patuxai e ci dirigiamo verso la strada, assai trafficata che conduce al Ponte
dell'Amicizia, il lungo viadotto sul Mekong, che unisce Laos e Thailandia. Roberto fora nuovamente, questa volta siamo costretti a far
sostituire la camera d'aria. Attraversiamo il borgo di Than Neua e costeggiando il Mekong, giungiamo al Wat Xieng Khuan conosciuto
anche come Buddha park. Un luogo bizzarro, con una cinquantina di statue in cemento erette nel 1958 per iniziativa di un santone che
volle in questo modo simboleggiare l'unificazione tra Buddismo ed Induismo. Varcato l'ingresso, ci si trova di fronte all'elemento più
bizzarro e kitch dell'intero parco, una costruzione simile ad una enorme zucca a cui si accede attraverso la bocca di un essere
mostruoso, simbolo del tempo che divora le cose. All'interno statue e figure immaginarie sono disposte su tre piani, che rappresentano
rispettivamente, l'inferno, la terra ed il cielo. Ci aggiriamo fra statue e gruppi scultorei riproducenti divinità buddiste, induiste e
creature immaginarie. Su tutte, si impone per dimensioni ed imponenza, la statua di un Buddha sdraiato. Improvvisamente si scatena un
temporale, dopo esserci riparati dai primi scrosci violenti all'interno dell'enorme "zucca", ci avviciniamo all'ingresso e troviamo
riparo sotto la tettoia di un negozio. Adriana, in attesa che le condizioni meteo migliorino, passa il tempo preparando delle barchette
in carta, fatte con giornali locali, per la felicità del figlio del proprietario, un bimbetto vispo che si diverte moltissimo a farle
navigare in una enorme pozzanghera. Dopo oltre due ore di attesa, la pioggia diminuisce d'intensità; ne approfittiamo per indossare le
mantelline e fare rientro a Vientiane. In città non piove, dopo una veloce puntata in albergo per asciugarci, cerchiamo di recuperare
parte del tempo perduto e ci rechiamo allo stupa dorato di Pha That Luang, il luogo di culto più importante di tutto il Laos, costruito
nel XVI° secolo. Sono ormai le 17 ed il tempio è già chiuso, non ci rimane che ammirare le linee slanciate della guglia, alta oltre quaranta
metri, posta al centro di una corona di petali di loto stilizzati, dall'esterno della cinta muraria merlata, con i fedeli che continuano
a depositare offerte e a pregare, inginocchiati, vicino agli ingressi ed ai piedi della statua di re Setthathirat, eretta nei giardini
antistanti il tempio.
Mercoledì 8 ottobre - Sveglia all'alba ed alle 6,30 dopo aver cercato, non
senza fatica, un tuk-tuk nelle vie adiacenti l'hotel, partiamo per la stazione degli autobus diretti nel nord del paese. Il
terminal è qualche chilometro fuori città; ci giungiamo in quindici minuti. Vorremmo prendere il bus delle 7,30, ma purtroppo i
posti sono esauriti e dobbiamo ripiegare sull'autobus vip delle 8. Con il sole, anche se le nuvole stanno già comparendo, lasciamo
Vientiane. Dopo un tratto in pianura, la strada in un susseguirsi di risaie, sale a Vang Vieng, attraverso paesaggi fra i più belli
del Paese. Frastagliate formazioni carsiche, perforate da gallerie, cunicoli e grotte, si elevano dalle risaie e dalla campagna
attraversata dal fiume Nam Xong, in uno scenario che ricorda, seppure lontanamente, la fantastica baia di Halong, in Vietnam. Dopo
Kasi, villaggio situato a circa metà strada tra Vientiane e Luang Prabang, in cui ci fermiamo per una breve sosta, la strada si fa
più ripida e tortuosa. Ai campi di riso, ai declivi coltivati a mais e a banane, si sono sostituiti ripidi e boscosi pendii ricoperti
dalla foresta pluviale. Lentamente ci alziamo di quota, raggiungiamo i 1.400 metri prima di scollinare e scendere nuovamente a fondo
valle (a circa 900 metri), dove la strada asfaltata, con tratti in terra a causa degli smottamenti, segue il corso di un fiume.
Affrontiamo una nuova serie di colline e risaliamo nuovamente a quota 1.450 metri; in un alternarsi di curve e controcurve, di colline,
montagne, vallate e piccoli villaggi. Dopo undici ore di viaggio, arriviamo a Luang Prabang. In tuk-tuk raggiungiamo il centro della città
e ci mettiamo alla ricerca di un albergo; quello prescelto è purtroppo al completo. Essendo ormai tardi, ripieghiamo per la notte su
una guesthouse, situata nelle immediate vicinanze.
Giovedì 9 ottobre - Mentre i nostri compagni di viaggio rimangono in albergo,
usciamo alla ricerca di una nuova sistemazione. La guesthouse, gestita da cinesi in cui abbiamo alloggiato questa notte, non ci
soddisfa; le camere sono microscopiche e fermandoci più giorni vorremmo una sistemazione migliore. La ricerca si rivela alquanto
difficoltosa. Visitiamo alcune belle dimore coloniali trasformate in albergo; quelle con posti disponibili hanno camere in condizioni
assai precarie. Un'ottima sistemazione si rivela un vecchio cascinale del periodo coloniale completamente riattato; dopo aver
contrattato con il proprietario, titolare di un'agenzia viaggi, che qui ospita i clienti dei propri tours e spuntato un buon prezzo,
decidiamo di trasferirci. A piedi ci dedichiamo alla visita della città. Luang Prabang, l'antica capitale imperiale è sicuramente la
località più affascinante del Paese. Un fascino sottile che prende vita tra i muri scoloriti di vecchi edifici coloniali, tipici
della provincia francese. Percorriamo Th. Sisavangvong, la via principale che con nomi diversi attraversa da ovest a est, l'intero
centro storico. Ci fermiamo al Wat May Suvannaphumaham, tempio degno di nota per le colonne decorate della veranda e per la sontuosa
facciata ricoperta di lamine d'oro con rilievi ed incisioni che raccontano la storia di Vessantara. Suggestivo anche l'interno che
presenta pareti dipinte con piccoli Buddha dorati su sfondo rosso. Attraversiamo il centro, che si protende nell'ansa creata dalla
confluenza del fiume Nam Kha con il Mekong, fermandoci lungo il percorso a visitare il Wat Sensoukarahm, tempio in stile thailandese
che presenta una facciata rosso rubino impreziosita da elaborate decorazioni in oro. A piedi costeggiamo il Mekong; lungo la riva
sono attraccate diverse imbarcazioni per il trasporto di merci e persone, in attesa di attraversare o risalire il fiume. Ci rechiamo al
Wat Xieng Thong, complesso del 1560, costituito da più costruzioni ed edificato in quella che viene considerata l'architettura classica
templare di Luang Prabang, caratterizzata da tetti spioventi che giungono fin quasi a terra. La biblioteca, alcuni stupa e la Sim, la
costruzione più importante del complesso, luogo in cui è custodita l'effigie principale di Buddha, sono decorate con mosaici di vetri
colorati; particolarmente suggestiva nella calda luce del tramonto una delle pareti esterne della Sim, impreziosita da un mosaico
raffigurante l'albero della vita. Facendo ritorno alla guest-house, ripercorriamo il centro di Luang Prabang; le animate vie cittadine
sono un susseguirsi di negozi, boutiques, agenzie di viaggio e guesthouse che rivolgono i loro servizi ai numerosi turisti.
Attraversiamo il mercato notturno, così chiamato perchè al tramonto la sede stradale chiusa al traffico veicolare, viene occupata dal
colorato mercato serale. Dai villaggi limitrofi giungono in città decine e decine di persone; deposte in terra le loro colorate
mercanzie (tessuti, copricapi, borse, ombrelli fabbricati con carta di riso, monili) attendono pazientemente la passeggiata serale dei
turisti.
Venerdì 10 ottobre - Ci alziamo che è ancora buio, per assistere al passaggio
dei monaci, che, alle prime luci del giorno, con passo spedito, transitano per le vie cittadine per ricevere la questua mattutina.
Inginocchiati a terra, donne e uomini con ciotole di riso fumante attendono che i religiosi si fermino per un istante di fronte a
loro, per deporre nel contenitore che ogni monaco porta con sè, la propria offerta consistente in una manciata di riso caldo. Ci
dirigiamo nuovamente verso il centro storico; nei pressi di una scuola, ci fermiamo ad osservare i bambini che in cortile giocano o
ripassano le lezioni in attesa di entrare in classe. Percorriamo Th. Khem Khong, il viale alberato che costeggia il Mekong; giunti al
molo contattiamo un barcaiolo, che ci prega di rivolgerci alla biglietteria della cooperativa che coordina i trasporti sul fiume.
Noleggiamo una longtail, imbarcazione in legno che può trasportare una decina di persone, per recarci alle grotte di Pak Ou. Per
raggiungerle dobbiamo risalire per circa venticinque chilometri il Mekong; il livello dell'acqua è alto e con le rive sabbiose sommerse, il fiume
giunge a lambire gli alberi che crescono sulle sponde. Dopo due ore di navigazione, attracchiamo accanto alle imbarcazioni di pellegrini
e visitatori che già affollano le grotte, situate nella parte inferiore di una parete calcarea nei pressi della foce del fiume Nam Ou.
La grotta inferiore, Tham Ting, cui si accede con una breve scalinata dal pontile in legno è molto piccola; statue in terracotta di
ogni misura e dimensione, raffiguranti Buddha, sono state deposte fra le rocce. Una scalinata conduce alla seconda grotta, Tham Phum,
molto più profonda, buia e disadorna della precedente. Il ritorno, a favore di corrente è più veloce; lungo il tragitto facciamo una
breve sosta a Xieng Khong, villaggio sulle rive del Mekong, conosciuto per la produzione di tessuti e di articoli in carta di riso che
vengono venduti al mercato serale di Luang Prabang. Rientrati in città, dedichiamo il pomeriggio alla visita dell'ex palazzo reale,
Ho Kham, ora museo nazionale. Costruito nel 1904, il palazzo, residenza della famiglia reale, è stato conservato nelle condizioni in
cui si trovava il giorno in cui il Patet Lao, costrinse i reali all'esilio. Nelle stanze e nelle bacheche, disposte lungo le pareti dei
saloni, sono esposti abiti, statue, dipinti, armi, monili e gli oggetti donati al sovrano, dai capi di stato di altre nazioni, durante
le loro visite ufficiali in Laos. Alla chiusura delle sale, dopo una visita alla autorimessa che contiene le automobili utilizzate dal
re e ricevute in dono nel corso degli anni dal governo degli Stati Uniti d'America, visitiamo i giardini del palazzo che ospitano il
Teatro reale, tuttora utilizzato per rappresentazioni teatrali ed il Wat Pha Bang, tempio di recente costruzione. Ci dirigiamo quindi
al Wat Xieng Muang. Nel cortile, un gruppo di giovani monaci sta allestendo imbarcazioni fatte con canne di bambù e fogli di carta
colorata, che verranno offerte alla corrente del Mekong in occasione del Bun Awk Phansa, la festa che segna la fine dei tre mesi di
ritiro dei monaci e che si terrà fra qualche giorno. Nel fare rientro in albergo, prima di inoltrarci nel mercato serale, facciamo
tappa all'agenzia proprietaria dell'hotel in cui alloggiamo, per prenotare i posti ed acquistare i biglietti dell'autobus, con cui
domattina raggiungeremo Phonsavan.
Sabato 11 ottobre - Con un tuk-tuk inviato direttamente dall'agenzia,
raggiungiamo il terminal, situato fuori città. Salendo sull'autobus, scopriamo che nonostante le assicurazioni e le conferme avute
dallo zelante impiegato dell'agenzia, che aveva telefonato in nostra presenza alla compagnia di trasporti, non è stata fatta la
prenotazione dei posti. Per evitare di viaggiare accalcati in fondo all'autobus, dobbiamo discutere non poco con il bigliettaio
per farci assegnare dei posti vicini a quelli che abbiamo regolarmente riportati sui nostri biglietti. Alle 8,30, sistemati tutti i
passeggeri, lasciamo Luang Prabang. Iniziamo a salire lungo la "route 13", già percorsa arrivando da Vientiane. Siamo nuovamente
immersi nel tipico paesaggio laotiano: campi terrazzati, risaie, foresta pluviale, piccoli ed isolati villaggi. In un susseguirsi di
continui saliscendi, dopo oltre tre ore di viaggio giungiamo a Phou Khoun, importante crocevia, che collega l'area di Vientiane e
Luang Prabang con la parte orientale del Paese. Approfittando della sosta pranzo, passeggiamo fra i chioschi che fungono da
ristorante e le bancarelle del mercato, frequentato prevalentemente dai Loum e dai Hmong, le etnie che abitano i villaggi della zona.
Con i loro piccoli sulle spalle, le donne si aggirano fra bancarelle, che vendono fiori, ortaggi, verdure e frutta. Sul bancone di
un macellaio accanto a tagli di carne macellata, vediamo in vendita dei grossi ratti. Riprendiamo il viaggio; la strada asfaltata,
seppure interrotta in diversi punti da frane e smottamenti, meno tortuosa di quella percorsa in mattinata, si snoda attraverso estese
coltivazioni di ananas e banane. Alle 16 giungiamo al terminal di Phonsavan, il cielo si è rannuvolato e si è alzata una brezza fredda
e fastidiosa. Raggiungiamo in tuk-tuk il centro della cittadina; lasciati in albergo i bagagli, usciamo a piedi alla ricerca di un
posto dove noleggiare le moto per i prossimi giorni. Ci rechiamo anche nella sede della Mag (Mines Advisory Group), l'organizzazione
che in collaborazione con la Uxo (Unexploded Ordinance Program), si occupa della rimozione e del disinnesco degli ordigni inesplosi,
residuati bellici scaricati in quantità elevatissime dai bombardieri americani B52 al rientro dalle loro missioni durante la guerra
in Vietnam. Visitiamo la piccola sala in cui sono conservate fotografie, ordigni, bombe di vario tipo e dove assistiamo alla
proiezione di un interessante documentario sull'opera di bonifica.
Domenica 12 ottobre - Dopo la prima colazione, effettuata in albergo con
i dolci acquistati presso un pasticcere cinese, di cui diventiamo clienti abituali, alle 8 ci rechiamo dal rivenditore di motociclette
che abbiamo contattato ieri per il noleggio degli scooter. Ci vengono consegnate due motociclette Luolja, 100 cc. di cilindrata, di
fabbricazione cinese, cloni perfetti ma non altrettanto affidabili delle più blasonate Honda. Dopo aver fatto rifornimento, lasciamo
Phonsavan. Percorriamo per venticinque chilometri, la "route 7", la strada che porta al confine con il Vietnam. Essendo domenica, nel villaggio
di Nong Pet, dovrebbe svolgersi un importante e frequentato mercato Hmong. Purtroppo è ben poca cosa; molto più piacevole ed
interessante la visita del villaggio. Facciamo conoscenza con il proprietario di un ristorante, un anziano signore che parla francese
e che ci mostra vari ordigni: bombe a mano, bombe a grappolo, granate e proiettili che ha raccolto nel corso degli anni nelle campagne
circostanti e che conserva nel suo locale. All'ingresso, campeggiano anche due grosse bombe; sono i gusci che contenevano migliaia di
piccole bombe a grappolo. Sganciate dai bombardieri, si aprivano in aria, rilasciando e facendo cadere a terra su una superficie di
cinque km. quadrati, il loro carico micidiale. Altre bombe ed una notevole quantità di rottami ferrosi di provenienza bellica sono
accatastati nel cortile di un vicino ferrivecchi. Facciamo ritorno a Phonsavan e proseguiamo attraverso risaie, campi coltivati e
piccoli villaggi in direzione di Muang Khoun, l'antica capitale del ricchissimo regno di Xiang Khouang, ricordato per i suoi sessantadue
splendidi stupa, in cui si favoleggiava, fossero contenuti straordinari tesori. Le scorrerie dei predoni e le guerre d'Indocina
hanno raso al suolo l'intera area, cancellando così, secoli di storia. Lasciamo gli scooter presso il mercato e a piedi saliamo allo
stupa di That Foun. Edificato in mattoni, sulla collina a ridosso della città, è ormai, quasi interamente fagocitato dalla
vegetazione. Quando ripartiamo la moto di Roberto comincia a fare le bizze e non vuole saperne di rimanere accesa. Ci rivolgiamo ad
un meccanico che sostituisce il regolatore e pulisce filtro e tubo della benzina, intasati dalle impurità. A Muang Khoun distante
una trentina di chilometri da Phonsavan, termina l'asfalto; proseguiamo fino al villaggio di Ban Tan, su una pista in terra battuta.
La zona è popolata da diversi gruppi etnici che abitano case di legno, costruite sul tipo delle longhouse, attorniate da
bellissime risaie terrazzate. La gente si stupisce del nostro passaggio, probabilmente non sono molti gli occidentali che si spingono
da queste parti. Veniamo invitati da una signora ad entrare nella sua abitazione, costituita da un'unica grande stanza. Sorridente,
porgendo un cesto di frutta, ci fa cenno di accomodarci, accanto al marito, su bassi sgabelli di vimini, posti vicino ad una grossa
pietra levigata su cui arde il fuoco. In un angolo sono arrotolate le stuoie che servono da giaciglio per la notte, mentre in una
zona più appartata si trova un telaio in legno utilizzato per tessere i tessuti. Pentole e stoviglie annerite dal fuoco, sono poste
ad asciugare su ripiani fatti con assi e canne di bambù, su un piccolo terrazzo, che si affaccia sulle risaie sottostanti. Pur
parlando due lingue diverse, Adriana e la padrona di casa conversano come se si conoscessero da sempre; prima di accomiatarci, in
cambio della squisita ospitalità, le offriamo alcune saponette profumate. Gli occhi le si illuminano. Con la luce che va scemando,
lasciamo la valle, un angolo di paradiso attraversato da una pista polverosa. Fra grossi bufali che si trascinano lentamente e
contadini che sotto il peso di rustici attrezzi, rientrano dal lavoro nei campi, facciamo ritorno a Phonsavan. E' buio quando
riconsegnamo le moto, che riprenderemo domattina.
Lunedì 13 ottobre - Dopo un'abbondante prima colazione con i dolci acquistati
nella pasticceria cinese, ci rechiamo a ritirare le moto. Ci attende una sorpresa; il negoziante, non è più disposto ad affittarcele.
A piedi percorriamo la strada principale di Phonsavan, alla ricerca di un paio di locali, dove avevo visto affissa la scritta "noleggio
moto". Li raggiungiamo e ci accordiamo con una signora, proprietaria di un ristorante e di alcuni scooter che tiene nel vicino giardino.
Sono sempre di fabbricazione cinese ma molto più nuovi e ben tenuti di quelli noleggiati finora; stranamente funziona tutto, dalle
frecce al contachilometri e nel cassettino sotto il sedile sono riposti gli attrezzi per eventuali riparazioni, due camere d'aria di
scorta ed una piccola pompa per gonfiare gli pneumatici. Il giro odierno è dedicato alla visita dei siti archeologici della Piana delle
Giare; sono circa una decina, ma solo tre resi accessibili, grazie all'opera di bonifica dall'immane quantitativo di ordigni bellici,
presenti nella regione. Ripercorso per un breve tratto la strada di ieri, raggiungiamo il sito n.1; ben segnalato, è il più visitato ed
il meglio tenuto. Le giare, circa 250, sono sparse su due basse collinette che si ergono dalla campagna circostante. Per sicurezza
camminiamo sul sentiero tra i cippi dipinti di bianco e rosso, infissi nel terreno dal Mag. I lati dipinti di bianco entro cui si
cammina, stanno ad indicare che la zona è stata bonificata in profondità, mentre oltre il lato dipinto di rosso, la bonifica è stata
eseguita "a vista", cioè in superficie, e quindi in tali aree l'accesso viene sconsigliato. Fra giare, grandi e piccole, distese a terra
o in piedi, intere o spaccate, sono segnalati e ben visibili alcuni crateri provocati dalle bombe sganciate durante la guerra del
1964-1973. Risaliti in sella ai nostri scooter, ci immettiamo nuovamente sulla strada asfaltata e dopo cinque - sei chilometri, svoltiamo su una
strada sterrata dal fondo sconnesso ma compatto, dovuto al fango indurito, che conduce al sito numero due. Situato su una collina, il sito è
nascosto nel bosco, con alberi secolari che avviluppano in un stretto e micidiale abbraccio, alcune giare. Proseguendo sulla pista
sterrata ci dirigiamo al villaggio di Lat Khai. Dopo una sosta al mercato, chiediamo ad un conducente di tuk-tuk indicazioni per
raggiungere il terzo sito, il più piccolo ed il più difficile da raggiungere. E' appena fuori l'abitato; parcheggiate le moto e pagato il
biglietto, ci inoltriamo a piedi, camminando sugli argini delle risaie, fino ai piedi di una collinetta, su cui ci arrampichiamo
superando con rudimentali scale, i recinti in legno per gli animali al pascolo. Riprese le moto proseguiamo nel nostro giro; ci
inoltriamo nella campagna fra risaie e villaggi in un dedalo di incroci con piste e tratturi più o meno battuti. Facendoci capire a
gesti, chiediamo costantemente indicazioni, alle persone che incontriamo. Per rientrare a Phonsavan, compiamo un lungo giro ad anello
che ci riporta alla strada sterrata percorsa in mattinata. Un vento freddo e fastidioso, ci soffia contro; lungo la pista notiamo la
presenza di ricoveri per gli animali che utilizzano come pali di sostegno del tetto, dei residuati bellici, in particolare i grossi
involucri che contenevano le bombe a grappolo. Dopo aver verificato al terminal, l'orario di partenza dell'autobus di domattina,
riconsegnamo le moto, che per la prima volta non ci hanno creato inconvenienti di sorta e ci rechiamo al mercato alimentare. Sta facendo
buio, il mercato è affollato di gente. Sui banconi, esposti per la vendita al pubblico, verdure, frutta, pollame e carne di ogni genere.
Parecchi sono i generi alimentari assolutamente inusuali che vediamo in vendita: larve di api, vive, custodite all'interno del proprio
favo, insetti e scarafaggi di varia forma e dimensione, topi di campagna e scoiattoli, in alcuni casi ancora con la propria pelliccia,
in altri già scuoiati oppure già cotti sulla brace. In una gabbia, ancora vive, sono tenute delle nutrie mentre su un banco, ormai morto,
vediamo un animale a noi sconosciuto, molto simile ad un piccolo cerbiatto.
Martedì 14 ottobre - Raggiunta la stazione degli autobus, prendiamo posto
sul minibus in partenza alle 8 per Sam Neua. Lasciamo Phonsavan e l'altopiano conosciuto come la "piana delle Giare". Dopo un iniziale
tratto pianeggiante, la strada si fa stretta e tortuosa; con strappi anche molto ripidi, intervallati da brevi tratti in discesa,
saliamo oltre i 1.500 metri di quota. La zona è impervia e poco abitata, lungo il percorso attraversiamo solo un paio di piccoli
villaggi; qui la foresta è la dominatrice incontrastata. Facciamo tappa, per la consueta sosta pranzo a Nam Neum, un agglomerato di
case sulle rive del Nam Pat, fiume che scorre incassato in una stretta valle. L'ultima parte del percorso è un alternarsi di foreste,
campi coltivati e ripidi crinali montagnosi; la zona meno impervia è più popolata e numerosi sono i villaggi di palafitte dal tetto
in paglia. Alle 15,45 siamo al terminal dei bus di Sam Neua. Dopo una giornata nuvolosa, il tempo peggiora nuovamente; sotto la
pioggia ci rechiamo al mercato in cui sono in vendita, prevalentemente, articoli di provenienza cinese e vietnamita.
Mercoledì 15 ottobre - La pioggia battente della notte, è finalmente cessata;
con un cielo grigio e cupo ci rechiamo da "Thone", l'unico posto in città dove si possono noleggiare motociclette. E' ancora chiuso;
armati di una buona dose di pazienza, attendiamo che all'apertura, il locale venga in buona parte svuotato per poter recuperare dal
fondo dello stesso, una delle moto. Quando, dopo aver espletato le pratiche di noleggio, complicate dalle difficoltà di comprensione,
finalmente ci consegnano due scooter di fabbricazione cinese, ricomincia a piovere. Oltrepassiamo il ponte sul Nam Sam, il fiume che
attraversa la città ed imbocchiamo la "route 6". La strada è subito in salita, superato un villaggio Hmong, la moto di Roberto
improvvisamente si spegne e non vuole saperne di rimettersi in moto. Dopo vari tentativi, riusciamo a farla ripartire; scolliniamo ed
al termine della ripida discesa, al primo villaggio ci fermiamo da un meccanico per cercare di risolvere il problema, fra gli sguardi
curiosi di alcune donne Hmong che indossano abiti e copricapo tradizionali. Il tempo non rende giustizia al paesaggio, veramente
stupendo; le risaie a terrazza sono circondate da pinnacoli rocciosi coperti di vegetazione. Ancora un tratto in salita ed eccoci,
nonostante i reiterati ed irrisolti problemi alla moto di Roberto, a Vieng Xai, la città nascosta. Alle 11, con un ritardo notevole,
siamo al centro di accoglienza per i visitatori delle grotte; ci comunicano che le visite, obbligatoriamente guidate, riprenderanno
alle ore 13. Lasciamo gli scooter al riparo, sotto una tettoia e a piedi raggiungiamo il mercato. All'orario stabilito, ci presentiamo
nuovamente al punto di ritrovo. Ci sono anche tre ragazzi di Vientiane con cui, visiteremo le grotte utilizzate dal Patet Lao, il
movimento comunista lao, durante gli anni della guerra. Hanno un pick-up ed essendo le grotte abbastanza distanti fra loro, ci
spostiamo con il loro mezzo; i ragazzi e la guida si sistemano in cabina, noi, in piedi, sul cassone. Visitiamo per prima, la grotta di
Kaysone Phomvihane, per anni dimora del segretario generale del partito comunista, l'unica ad essere ancora interamente arredata con
mobili e suppellettili. Nelle grotte, tutte predisposte secondo un identico schema costruttivo interno, sono state ricavate, utilizzando
pareti divisorie in legno, i locali di una vera abitazione: la cucina, le camere da letto, lo studio, la sala delle riunioni, in cui i
leader della rivoluzione si ritrovavano per discutere strategie militari, politiche ed ideologiche. Protetta da spessi muri in cemento
armato, era stata ricavata anche una cella blindata; all'interno una pompa di fabbricazione sovietica munita di filtro, permetteva di
depurare l'aria contaminata in caso di attacco nemico con armi chimiche. Ci spostiamo alla Souphannouvong Cave e quindi alla Knamtay
Siphandone Cave, rifugio del responsabile della Difesa ed ultimo membro del Politburo ad essere nominato presidente della Repubblica
del Laos. La grotta è collegata con un cunicolo, ad un esteso labirinto di caverne; utilizzate dall'esercito come quartier generale,
potevano ospitare i giacigli per 2.000 soldati. In ultimo ci rechiamo alla Xanghot Cave. Chiamata anche la grotta dell'elefante,
veniva utilizzata per riunioni e come luogo di svago per le truppe; qui venivano allestiti spettacoli musicali e rappresentazioni
teatrali presentati da compagnie laotiane o vietnamite. Sotto la pioggia, che non ci ha dato tregua per l'intera giornata, facciamo
rientro in città. A quattro chilometri da Sam Neua, lo scooter di Roberto decide di fermarsi definitivamente. Porto Adriana in albergo,
ritorno indietro e dopo aver fatto salire Daniela sulla mia moto, traino Roberto con il mezzo in avaria, fino in città.
Giovedì 16 ottobre - Giornata di trasferimento quella odierna. All'alba ci
rechiamo al terminal dei bus, in quanto vorremmo raggiungere Udomxai in un'unica tappa; purtroppo a causa delle strade tortuose e dei
tempi di percorrenza estremamente lunghi, non ci sono autobus diretti per tale destinazione. Decidiamo pertanto di acquistare i
biglietti fino a Nong Khiaw, dove l'arrivo è previsto in serata. C'è un unico mezzo in partenza oggi; il minibus da venticinque posti
delle 7,30. Inganniamo l'attesa, osservando i numerosi viaggiatori, diretti a Vientiane e a Luang Prabang; hanno bagagli voluminosi e
qualcuno fa caricare sul tetto dell'autobus anche il proprio scooter che viene issato a braccia o con l'ausilio di corde da quattro - cinque uomini.
A guardarci, incuriosito, dal finestrino di un autobus parcheggiato accanto al nostro, anche un bimbetto in braccio alla giovanissima
madre. Indossa solo il tipico cappellino dei bimbi Hmong ed una maglietta; il resto del corpo è completamente nudo. Fino a Phulao,
ripercorriamo la "route 6", l'unica strada che da accesso alla valle di Sam Neua, per proseguire quindi lungo la "route 1C". Sono
strette strade di montagna; un susseguirsi di curve e controcurve, di salite e discese. Nella più totale assenza di traffico,
attraversiamo boschi, campi coltivati e villaggi, i cui abitanti indossano i neri abiti tradizionali, tipici delle etnie della regione.
Lungo il percorso facciamo diverse soste, nei posti più impensati, per far salire o scendere nuovi e vecchi passeggeri; un'umanità varia
che riempie l'autobus di una fantasmagorica serie di rumori, suoni, odori. Un tratto di strada lo percorriamo con quattro giovani
militari, armati di fucile, completamente ubriachi. Rientrano evidentemente da una licenza e saliti in un piccolo villaggio scendono
dopo alcuni chilometri in piena foresta; solo guardando con attenzione vediamo su una collinetta, un accampamento militare. Poco più
avanti, nei pressi di un ponte, è un uomo a salire a bordo; ha con sè quattro, cinque sacchi pieni di ciotoli di fiume, tondi e
levigati, che vengono depositati nello stretto corridoio tra i sedili. Seduta dietro a noi, c'è una giovanissima mamma con un bimbetto,
di circa sei mesi, che piange. Lei talvolta lo schiaffeggia per farlo smettere, ottenendo l'effetto contrario. Adriana, decide di farsi
dare il piccolo; lo prende in braccio. Lui sorride, vuole sgambettare e lasciandolo fare, smette di piangere. Quando stanco, ritorna
fra le braccia della madre è ormai tranquillo. Attraversiamo vaste aree in cui la foresta è stata bruciata per far posto a nuove
coltivazioni di mais; ciò che resta degli alberi, sono spuntoni anneriti, pezzi di tronco bruciato che emergono dalle coltivazioni.
Alle 12 siamo a Vieng Thong per la consueta sosta per il pranzo; ne approfittiamo, visitando e facendo acquisti al locale mercato. La
strada da percorrere è ancora molta, superato un passo a 1.700 metri di quota, scendiamo verso il fondovalle, dove per lunghi tratti
costeggiamo il corso di fiumi e torrenti. Dopo undici ore di viaggio, giungiamo a Nong Khiaw; è ormai buio. Nella scarna luce che proviene
dai locali che si affacciano sulla strada, ci dirigiamo verso il ponte sul fiume Nam Ou, dove più numerose sono le possibilità di
pernottamento e ci sistemiamo nei comodi bungalows, immersi nel verde, della Sengdao guesthouse.
Venerdì 17 ottobre - Nel silenzio, è il rumore ovattato del motore di una
barca che risale la corrente a svegliarci. Usciamo sulla veranda del bungalow; la nebbia, fitta, sta cominciando ad alzarsi ed ai primi
pallidi raggi di sole, il villaggio, il fiume, il ponte e le barche cominciano a rivelare i loro contorni. In attesa che sia pronta la
prima colazione, servita sulla balconata che dal giardino si affaccia sul fiume, cerco di raccogliere informazioni sui collegamenti
per Udomxai e sugli orari dei mezzi in transito o in partenza da Nong Khiaw. Dopo aver appurato che il primo autobus arriverà in paese
tra le ore 11 e le 12, mi reco presso la cooperativa che gestisce i trasporti locali, per conoscere orari e costi. Il primo sawngthaew è previsto per metà mattina, ma trovando un accordo economico, è possibile anticipare la partenza. Una breve
contrattazione e concordato l'importo, alle 8 possiamo partire. Lungo il percorso carichiamo altri passeggeri, persone che sul ciglio
della strada, sono in attesa di un mezzo in transito disposto a caricarli. Facciamo una breve sosta a Pak Mong, dove abbiamo modo di
fare conoscenza con un vecchina appartenente all'etnia dei Hmong blu; ci esterna i suoi problemi di artrite alle mani e cerca dei
medicinali per alleviare il dolore. Lasciato il fondo valle, iniziamo a salire; in un villaggio sui monti appena prima di scollinare
vediamo un grosso gatto selvatico ucciso ed appeso ad una bancarella per essere venduto. Dopo tre ore di viaggio approdiamo al terminal
di Udomxai. Giusto il tempo di guardarci attorno, fare i biglietti, caricare i bagagli e prendere posto sul minibus, in
partenza alle 11,30. Ci sono ancora un paio di posti liberi; nella speranza di recuperare ancora qualche passeggero e di avere tutti
i posti a sedere occupati, la partenza viene fatta slittare a mezzogiorno. Raggiunto il centro della città, ci fermiamo; alcuni
passeggeri d'accordo con l'autista, scendono per fare acquisti nei negozi lungo la strada. Avendo parcheggiato di fronte ad una banca,
avvisato l'autista, io e Daniela approfittiamo della sosta, per andare a cambiare della valuta. In banca non sono molto celeri, perdiamo
un po' di tempo; quando ritorniamo all'autobus, gli altri passeggeri sono già rientrati. Roberto ed Adriana rimasti sul bus, ci
riferiscono che il ritardo fa fatto inviperire alcuni passeggeri cinesi, spazientiti per la sosta imprevista. Costeggiando
l'alveo di un fiume, risaliamo la valle, che porta i segni di una recente alluvione. La strada è ridotta ad un tratturo sassoso,
l'asfalto e gli alberi che la costeggiavano sono stati divelti dalla violenza dell'acqua. I danni sono notevoli; interi villaggi
invasi dal fango e molte abitazioni costruite in legno e bambù distrutte. Solo quando iniziamo a salire, la situazione migliora. Lungo
la strada vediamo improvvisati mercati ortofrutticoli, espressione di una zona dove l'agricoltura è molto sviluppata. Dal bivio
per Boten, località al confine con la Cina, la strada migliora sensibilmente. E' opera dei cinesi, che la utilizzano per raggiungere
dalla regione dello Yunnan, le piantagioni di alberi della gomma che le industrie cinesi hanno impiantato sui monti della zona.
Sabato 18 ottobre - Raggiungiamo a piedi la vecchia stazione degli autobus,
ora utilizzata per i trasporti a corto raggio e per collegare il centro città, al nuovo terminal costruito sulla strada per
Huay Xai, ad una dozzina di chilometri da Luang Nam Tha. Sei corse giornaliere, collegano Luang Nam Tha con Muang Sing; prendiamo la
prima della giornata, quella delle 8. Ci ritroviamo in tredici, pigiati come sardine, su un pulmino a nove posti. Le condizioni
della strada, asfaltata ma molto sconnessa, non agevolano la comodità del viaggio; superato lo sbarramento di un bacino artificiale,
si comincia a salire. Per raggiungere la piana di Muang Sing, dobbiamo oltrepassare una serie di colline e montagne; molte sono state
disboscate per far posto a piantagioni di alberi della gomma. In un'ora e mezza siamo a Muang Sing; ci facciamo lasciare con altri
passeggeri sulla strada principale del paese, nei pressi del vecchio mercato. Mentre Daniela e Roberto ci attendono con gli zaini, noi
ci mettiamo alla ricerca di una guesthouse. E' una bella giornata di sole e pur essendo a 800 metri d'altezza, fa molto caldo.
Depositati i bagagli alla guesthouse Puiou 2, ci incamminiamo verso il centro del paese, alla ricerca di informazioni e di un posto dove
noleggiare gli scooter. Ci rendiamo subito conto che non sarà un'impresa facile; scopriamo che durante il fine settimana le diverse
agenzie che organizzano trekking nei villaggi della zona, sono chiuse. L'unica aperta è la "Tiger man"; acquistando un paio di cartine,
riusciamo ad avere le informazioni che cerchiamo sulla fattibilità dei trekking, sulle condizioni di strade e sentieri, sui villaggi
e sulle etnie che li abitano. Dopo aver appreso che buona parte dei percorsi che si farebbero a piedi, sono percorribili anche in moto
e che le stesse agenzie prevedono per le aree più lontane, spostamenti in tuk-tuk, abbandoniamo l'idea del trekking ed optiamo per il
noleggio degli scooter. Essendo impossibile noleggiarli in loco, decidiamo di recuperarli a Luang Nam Tha. Mentre Adriana e Daniela,
rimangono a chiacchierare nel verde giardino antistante i bungalows che ci ospitano, io e Roberto riprendiamo il minibus delle 14. Alle
15,30 siamo nuovamente a Luang Nam Tha; ci facciamo lasciare nei pressi della Zuela guesthouse, dove noleggiamo due scooter Honda da
125 cc. Rifornimento di benzina e ... via, si ritorna velocemente a Muang Sing.
Domenica 19 ottobre - E' ancora buio, quando il canto dei galli mi sveglia. Le
sottili pareti di bambù del bungalow non isolano dai rumori che provengono dalle case vicine. Sentiamo spaccare legna, probabilmente
per accendere il fuoco del mattino. Decido di alzarmi. E' l'alba, il sole comincia a farsi largo nella nebbia dovuta all'umidità della
notte. Nelle strade, molta animazione; chi si sposta a piedi, chi in bicicletta o in moto. Decidiamo di scoprire i dintorni di Muang
Sing, iniziando dai villaggi più vicini alla città. Con il cielo nuovamente coperto, imbocchiamo la strada asfaltata che conduce alla
frontiera con la Cina. Avvicinandoci al confine, le prime propaggini delle colline, su cui sorgono estese piantagioni di alberi della
gomma, hanno preso il posto delle risaie, in cui i contadini sono intenti a tagliare, a mano, il riso. Giungiamo fino alla frontiera
laotiana, oltre, nella "terra di nessuno" che separa il Laos dalla Repubblica cinese, non possiamo andare. In attesa di varcare il
confine, due autobus cinesi; i passeggeri sono yunnanesi che ritornano in patria. Dirigendoci al villaggio yao di Oudomsin, dove le
donne portano come copricapo, i neri turbanti tradizionali, incrociamo due anziani signori che con sgangherate biciclette arrancano in
salita, verso le piantagioni. Ritornati verso Muang Sing, imbocchiamo la strada sterrata che conduce ad alcuni villaggi akha, lue e
mong; la prima sosta è al villaggio lue di Tapao, caratterizzato da un monastero le cui pareti sono affrescate con pitture che
richiamano scene infernali. Attraverso risaie terrazzate a cui si alternano zone boscose, ci dirigiamo verso le colline. Ci fermiamo
al villaggio mong di Kokmoung; al nostro arrivo dalle case in legno ricoperte da tetti in paglia, ecco sbucare una pletora vociante di
bambini che curiosi ci accompagnano nel nostro girovagare. Proseguiamo fino al villaggio akha di Houyhoy, un insieme di caratteristiche,
vecchie abitazioni a palafitta. La gente incurante della nostra presenza, continua nelle proprie attività; le donne a lavarsi alla
fontana nella "piazza" del villaggio, i bambini a rincorrersi giocando con trottole in legno. Ripercorrendo la strada in senso
contrario ci fermiamo in un altro villaggio akha, Seua Deang, un piccolo gruppo di case arroccate sul fianco di una scoscesa collina,
da cui lo sguardo spazia sull'intera piana sottostante. Oltrepassata Tapao, facciamo una deviazione al villaggio mong di Nasay. La
gente è ancora nei campi; fra le case qualche donna e il solito stuolo di bambini. Alcuni, in tenera età, avrebbero bisogno di
cure mediche, presentando forme di congiuntivite acuta. Concludiamo la giornata, recandoci al piccolo stupa dorato di Xieng Thung, che
raggiungiamo, salendo a piedi, il ripido e sconnesso tratturo che conduce sulla sommità della collina. Lo stupa, alto una decina di
metri, costruito in stile lanna, diventa meta di pellegrinaggio durante la festa del That Xieng Thung, quando gli abitanti dei
villaggi, si radunano sulla spianata della collina in una festa che accomuna aspetto religioso, aggregazione sociale e divertimento.
Lunedì 20 ottobre - Fatto il pieno di carburante, imbocchiamo la strada
in terra che partendo dalla stazione dei bus si dirige a nord, verso le montagne oltre le quali scorre il Mekong, che in quel tratto
funge da confine con la Birmania. Dopo qualche chilometro abbiamo un primo assaggio di ciò la pista ci riserva; un fondo stradale
molto sconnesso, con grosse buche e cunette provocate dalle ruote degli autocarri transitati sul terreno cedevole e che indurendosi
hanno trasformato la strada in un percorso ad ostacoli. In alcuni tratti sono invece lunghe e profonde pozze fangose a metterci in
difficoltà. Ci troviamo ad affrontare ripide salite sassose, guadi, tratti sabbiosi; una varietà di condizioni che rendono il percorso
piuttosto impegnativo per le caratteristiche dei mezzi che guidiamo e che costringono Adriana e Daniela a scendere dalle moto e
procedere a piedi quando dobbiamo superare i tratti più ostici. Ci consoliamo, constatando che anche i pochi locali che incontriamo e
che, come noi, hanno la stessa tipologia di mezzo, incontrano le nostre stesse difficoltà. Affrontato un primo tratto in salita, ci
fermiamo al piccolo villaggio di Chom, poche case, palafitte in legno abbarbicate sul ripido crinale di una collina; abitato dall'etnia
dei Kmou, presenta poco prima dell'ingresso al villaggio, strani totem. Affrontiamo un lungo tratto collinare in mezzo alla foresta,
seguito da un ampia area in cui il bosco è stato distrutto con il fuoco per far posto a risaie coltivate a secco, in mezzo a cui
spuntano i fusti anneriti degli alberi. Fino a qualche anno fa in questa area, veniva coltivato l'oppio; numerosi sono i cartelli in
cui si spiega che le colture sono recenti e che l'area è stata sottoposta ad un progetto di riconversione. Attraversato il ponte in
ferro sul fiume Yeun, giungiamo al grosso villaggio di Mom. All'ingresso del paese, visitiamo un caratteristico monastero; la
costruzione non presenta muri perimetrali ma è solo cintata da un basso muretto, con pilastri in legno dipinto, che sorreggono la
travatura del tetto, da cui pendono lunghe strisce di tessuto. All'esterno un giovane monaco sta lavando le stoviglie, ma
è la nostra presenza che incuriosisce e richiama un capannello di ragazzini. Ci inoltriamo fra le colline, abitate dagli akha, alle
pendici dei monti che ci separano dal Mekong. Ci fermiamo al villaggio di Bouknyasai; ci colpiscono la presenza di numerosi tavoli da
biliardo sotto tettoie di bambù e le enormi quantità di bottiglie vuote di Bier Lao, la birra locale, accatastate ovunque, segno
inequivocabile della dipendenza di queste minoranze etniche dall'alcool. Nel villaggio, poche persone, qualche donna e come sempre
tanti bambini; incuriositi dalla nostra presenza, scappano terrorizzati quando dallo zaino estraiamo la macchina fotografica. Superati
un paio di guadi, affrontiamo la salita, ripida e sconnessa che conduce al valico, un tratto disastrato che sembra non finire mai.
Raggiungiamo quota 1.200 metri. Davanti a noi, il panorama dell'intera vallata, con i villaggi, le risaie ed in lontananza, le colline
con le piantagioni. E' ormai pomeriggio, decidiamo di non proseguire oltre e di ritornare sui nostri passi. Poco dopo Mom, incappiamo
in un improvviso e violento temporale; dura lo spazio di qualche decina di minuti, più che sufficienti a rendere la pista, già difficile
da asciutta, quasi impraticabile.
Martedì 21 ottobre - Anche stamane è il canto del gallo, la nostra sveglia
ed il nostro incubo. Oggi siamo diretti verso ovest, a Xieng Kok, grosso villaggio e porto fluviale sulle rive del Mekong, ad una
settantina di chilometri da Muang Sing. Imbocchiamo la "route 17", una bella strada, larga ed asfaltata, che fa nascere in noi la
segreta speranza che tali condizioni ci accompagnino fino a destinazione. Una decina di chilometri e l'illusione finisce; all'asfalto
subentra lo sterrato. Lungo il percorso, sono in corso lavori di manutenzione; buche e solchi creati dall'erosione della pioggia vengono
chiusi con la terra prelevata dai vicini campi coltivati. In un alternarsi di tratti pianeggianti e saliscendi tra foresta e risaie
terrazzate, la strada attraversa una regione popolata prevalentemente dagli akha. Attraversiamo numerosi piccoli villaggi, in cui le
donne indossano il tradizionale cappello adornato di antiche monete d'argento e girano a seno scoperto. A Kok Hine, nel polveroso
spiazzo del villaggio, alcuni abitanti hanno ucciso un bufalo; gli uomini che lo hanno macellato, stanno tagliando i quarti, in pezzi
più piccoli. In parecchi, partecipano all'operazione; c'è chi taglia la carne, chi svuota le interiora, chi lava la pelle dell'animale.
Una signora, probabilmente cinese, dai modi bruschi e decisi, la probabile acquirente dell'animale macellato, quasi infastidita dalla
nostra presenza, impartisce ordini e controlla con piglio manageriale, l'esecuzione del lavoro. Sull'uscio di una casa, poco distante,
una donna akha, intenta a cucinare ci fa segno di avvicinarci. Ci porge bassi sgabelli e ci invita a sederci in sua compagnia. Ci offre
quello che ha; le speziatissime polpette che sta preparando e della verdura. Ricambiamo la cortesia, con una maglietta e dopo una breve
sosta, vista l'impossibilità di comunicare, ci accomiatiamo. In cielo compaiono le prime nubi e con esse, le prime gocce di pioggia;
sono però le nuvole nere che sovrastano le colline più alte, a non promettere nulla di buono. A sei - sette chilometri da Xieng Kok, la nostra meta
odierna, si scatena l'ormai consueto nubifragio. Troviamo riparo sotto un capanno abbandonato in un piccolo villaggio akha. Siamo al
centro dell'attenzione, i bambini incuranti del diluvio, seminudi, giocano e ci osservano sotto la pioggia torrenziale. Dopo circa
un'ora, la pioggia perde d'intensità; indossate le mantelline, forti dell'esperienza dei giorni scorsi e memori delle difficoltà
incontrate nel rientrare in città, decidiamo di non correre rischi e seppure a malincuore, torniamo indietro. Non ci sbagliavamo; la
terra dei campi utilizzata per sistemare la sede stradale, si è tramutata in fango scivolosissimo. Nonostante si proceda molto
lentamente, rischiamo più volte di cadere. Percorrere l'ultimo tratto in asfalto, ci sembra un sogno; è ormai buio, quando,
districandoci fra animali e persone, che dai campi, rientrano ai villaggi, arriviamo a Muang Sing.
Mercoledì 22 ottobre - La pioggia torrenziale della notte, ci sconsiglia
di avventurarci su piste e sentieri sterrati. Non abbiamo ancora visitato il Museo tribale di Muang Sing, tappa obbligata prima di
lasciare la città. Ospitato sui due piani di una casa d'epoca appartenuta ad un principe
locale, espone una polverosa ma interessante raccolta di oggetti ed abiti. Al piano terreno, la parte più interessante; oltre
all'esposizione degli abiti tradizionali indossati dalle singole etnie locali, Akha (con i differenti sottogruppi), Hmong, Yao, Lolo,
Tam Dam, etc., sono esposti strumenti musicali, armi ed utensili d'uso quotidiano. Al primo piano, l'esposizione consiste in foto
d'epoca, gong, statue di Buddha ed altri reperti provenienti dai monasteri della regione. Raggiungiamo il terminal dei minibus;
Adriana e Daniela, con i bagagli, ritorneranno a Luang Nam Tha in sawngthaew, mentre io e Roberto rientreremo in
moto. Pur essendo giunti con un congruo anticipo, il pulmino delle 9,30 è al completo; dovremo aspettare il successivo, previsto per
le 11. (le corse in entrambi i sensi sono previste alle 8 - 9,30 - 11 - 12,30 - 14 - 15). Ne approfittiamo per recarci al vicino mercato,
questa mattina particolarmente affollato; fra le bancarelle, uomini e donne appartenenti alle diverse etnie (akha, thai dam, thai lu,
yao, mong), scesi in città, dai villaggi vicini, per fare acquisti o per vendere i prodotti dei loro campi. E' un susseguirsi di
discussioni e contrattazioni; solo in tarda mattinata sawngthaew e trattori con i rimorchi carichi di cose, animali e persone
lasciano il mercato, per rientrare ai villaggi. Ritornati a Luang Nam Tha e depositati i bagagli alla Zuela guesthouse, raggiungiamo il
piccolo villaggio kamu di Ban Bompeang che sorge lungo la "route 3A", la strada che unisce la frontiera thailandese a quella cinese.
Si scatena l'ormai consueto acquazzone; in compagnia di altre persone, anche loro in moto e come noi, sorprese dalla pioggia, attendiamo
sotto la pensilina di un negozio che il tempo migliori. Ritornando in città, transitiamo per i ban di Papouk e Tongdee,
piccoli villaggi rurali, circondati dalle risaie, abitati da Thai Black. Terminiamo la giornata, recandoci al piccolo e deludente
mercato notturno; passeggiamo, fra le poche bancarelle che vendono cibo cucinato al momento, accompagnati dallo stridulo gracchiare
degli altoparlanti, che diffondono il notiziario del partito.
Giovedì 23 ottobre - Siamo ormai alla conclusione del viaggio e lasciando
Luang Nam Tha, ci avviciniamo al confine con la Thailandia. In tuk-tuk raggiungiamo il terminal dei bus situato fuori città, dove
alle 9 è prevista la partenza dell'autobus per Huay Xai. Ormai la nuova strada costruita dai cinesi è terminata; larga, con curve ampie
e ben asfaltata, riduce di circa tre ore il tempo di percorrenza; purtroppo nel tratto finale, il fondo stradale è già stato rovinato
dal transito incessante di autocarri che con il loro pesante carico, fanno la spola tra le miniere di carbone ed il Mekong. Attraversiamo
le colline del Bokeo; dopo tre ore e mezza di viaggio siamo al terminal di Huay Xai e con un taxi collettivo, insieme ad altri
viaggiatori raggiungiamo il centro della cittadina. Depositati i bagagli, percorriamo Th. Saykhong, la via principale, fulcro vitale
ed anima commerciale di Huay Xai. Oltre il molo che collega le due sponde del Mekong, è un susseguirsi di hotels, guesthouse, ristoranti,
negozi ed agenzie di viaggio che cercano di catturare l'attenzione dei turisti appena approdati dalla Thailandia, proponendo escursioni
nel Bokeo e la navigazione fino a Luang Prabang, sul "grande fiume". Strano a dirsi, ma difficili da trovarsi sono le moto a noleggio;
dopo una laboriosa ricerca, recuperiamo due scooter al Thaveesinh hotel. Ci dirigiamo verso la periferia settentrionale della città, al
Wat Khonekeo Xaiyaram, il principale tempio della città. E' chiuso ma un monaco seduto in cortile, ci fa segno di attendere; prese le
chiavi, ci permette di visitarlo. Sia la facciata e le colonne esterne che le pareti interne sono affrescate con disegni a tinte
sgargianti; un inno al colore, di gusto comunque molto discutibile. Ci dirigiamo quindi ad est, verso la vera meta odierna, Nam Chang,
villaggio abitato dall'etnia dei Lao huay. Lasciate le moto all'ingresso del villaggio, ci inoltriamo fra le grandi capanne di bambù
ricoperte da tetti in paglia, che scendono, spioventi, fino ad un metro da terra. Ci avviciniamo alla scuola; non essendo orario di
lezione, le aule sono vuote. All'interno, unico arredo, una piccola lavagna appesa al muro, su cui una mano insicura ha scritto
durante la lezione mattutina, alcune parole in inglese. Mentre, dalla porta socchiusa, curiosiamo in una delle aule, facciamo
conoscenza con la maestra, una giovane donna con in braccio la propria bambina. Parla un poco di inglese, quanto basta per
permetterci di rompere il ghiaccio ed avvicinare i bambini e le donne del villaggio, che incuriosite ci hanno raggiunto. Indossano
gli abiti tradizionali, bluse e pantaloni blu scuro e portano nei capelli, uno spillone fatto con una vecchia moneta d'argento.
Venerdì 24 ottobre - Il gong, suonato dai monaci nel vicino monastero che
sovrasta Huay Xai, ci da la sveglia. Mi alzo e vado sul terrazzo della guesthouse; piove, ma da un piccolo squarcio azzurro,
giungono i primi raggi di sole. Rimango per una decina di minuti ad osservare le vie che lentamente cominciano ad animarsi. Vedo, in
lontananza, avvicinarsi un corteo di monaci. Rientrano al monastero dopo la questua mattutina; mi reco in camera, chiamo Adriana e
senza perdere tempo scendiamo in strada per assistere con i fedeli inginocchiati, al passaggio della processione. A piedi, sotto una
pioggerellina fine, ci rechiamo al Talat Sao, il mercato mattutino. Girovaghiamo fra i banchi del mercato alimentare; la parte più
interessante è l'area, in cui si sono radunate le donne provenienti dai villaggi dei dintorni, per vendere i loro prodotti;
molte di loro indossano gli abiti tradizionali. Daniela e Roberto sono rimasti in albergo; alle 8, lasciamo il mercato e ritorniamo
in hotel. Rientrando, ci fermiamo nei pressi della nostra guesthouse, per osservare gli ultimi preparativi di un funerale.
Alcuni uomini stanno addobbando con drappi e ghirlande, il cassone di un furgone, mentre le donne riassettano i tavoli, dopo
la riunione conviviale della sera precedente. Ieri sera, rientrando in albergo, avevamo visto che sotto un tendone appositamente
allestito, nella via chiusa al traffico, veniva servita la cena, in ricordo del defunto. Erano presenti tantissime persone che
trascorrevano la serata, mangiando, bevendo, chiacchierando, giocando a carte. All'interno dell'abitazione fra corone e vasi di
fiori bianchi, era stata allestita la camera ardente con il feretro del defunto, addobbato con luci e festoni colorati. Seduti,
intorno ad un tavolo, sull'uscio di casa, erano riuniti, vestiti di bianco, il colore del lutto, i congiunti più stretti. Recuperati i bagagli
ci portiamo al molo, punto di partenza delle imbarcazioni che attraversano il Mekong. In pochi minuti sbrighiamo le formalità
d'uscita e sotto una pioggia battente, lasciamo il Laos, per salire sulla lancia che ci traghetta sulla sponda thailandese.
Espletati i controlli per l'ingresso nel Paese, con un tuk-tuk ci facciamo portare, a quello che viene considerato il terminal per
gli autobus diretti a Chiang Mai; l'ufficio della compagnia statale dei trasporti. C'è un bus previsto per le 11,45. Acquistati i
biglietti, inganniamo l'attesa girovagando per il mercato di Chiang Khong, punto di riferimento per chi è diretto nelle principali
città del nord della Thailandia; Chiang Mai e Chiang Rai. Percorrendo le strade 1020 e 1021 raggiungiamo Phayao; dopo una sosta al
terminal locale, imbocchiamo le strade 120 e 118 ed alle 19, ben oltre le sei ore previste per il viaggio, sotto la pioggia,
giungiamo a Chiang Mai, l'antica capitale del regno dei Lanna.
Sabato 25 ottobre - Giornata dedicata allo shopping, quella odierna.
Lasciato Roberto in hotel, bloccato da un dolore muscolare, ci incamminiamo verso la zona nord-occidentale della città. Imboccata
Th. Chang Mai, costeggiamo il fiume Mae Nam Ping, le cui rive costituiscono l'area commerciale più animata della città. Percorrendo
Th. Kaew Nawarat, raggiungiamo il "mercatino delle pulci", ospitato nelle ombrose vie adiacenti il parco del Prince Royal's college.
Transitiamo accanto ad alcuni Wat, tra cui il Wat Chang Kong ed il Wat Ketharam. Prima di recarci al Warorot Market, area coperta
in cui sono in vendita cibi tipici della cultura lanna e di dedicarci al Night Bazar, il mercato notturno serale, passiamo buona
parte del pomeriggio al Baan Ta Rhae, emporio di articoli etnici, dove Daniela ed Adriana effettuano numerosi acquisti. Portati in
hotel, gli ingombranti pacchetti e recuperato Roberto che sta meglio, ritorniamo nuovamente al Bazar notturno per altri acquisti,
per cenare e trascorrere la serata.
Domenica 26 ottobre - Usciamo a piedi, mentre Daniela e Roberto preferiscono
rimanere a poltrire in albergo in vista del viaggio di rientro. Percorriamo Khotchasan Road ed entriamo nella città vecchia, l'area
centrale racchiusa dal perimetro dei canali. Imbocchiamo Ratchamankha Road e raggiungiamo il Wat Chedi Luang, un complesso di templi
che racchiude uno degli stupa più venerati; è in corso una funzione religiosa funebre in onore di uno dei monaci più anziani,
appena deceduto. All'interno del tempio i giovani monaci sono raccolti in preghiera, in compagnia di due cani che si grattano e si
accucciano fra i ragazzi, che alternano le distratte orazioni con le più divertenti attenzioni agli animali. Usciamo su
Ratchadamnoen Road, giusto in tempo per assistere al passaggio di una processione aperta da giovani donne seguite da un drappello
di ragazzini a cavallo che hanno il viso pesantemente truccato ed indossano vestiti principeschi: si tratta della Shinbyu,
l'iniziazione al periodo di noviziato monacale. Precedono un gruppo di giovanissimi monaci, con la tunica bianca dei novizi ed i capelli
rasati di fresco; in mano hanno un fiore. Sono seguiti, dai monaci anziani e dai parenti che portano, piegate, le tonache arancioni e
la ciotola usata per chiedere l'elemosina mattutina. Provengono dal Wat Phra Sing, il tempio più importante di Chiang Mai, affollato
di fedeli in preghiera, che deve la propria fama al fatto che ospita la statua di Buddha, più venerata della città. Percorrendo Th.
Phae road, raggiungiamo il Warorot market ed il Ton Lam Yai market, mercato con prodotti tipici locali, dove facciamo gli ultimi acquisti. Ripercorrendo Chang Khian road, la via che nelle ore serali ospita il Night Bazar, facciamo rientro in albergo. Preparati i bagagli,
con un tuk-tuk raggiungiamo l'aeroporto, per il rientro con un volo Thai a Bangkok. Tempo di salire sull'aeromobile e si scatena
un violento nubifragio, che pur durando pochi minuti, allaga la pista; a causa delle pessime condizioni meteo, partiamo in ritardo. Non
ci preoccupiamo, abbiamo ancora parecchio tempo da aspettare prima del prossimo volo; recuperati i bagagli e fatto il check-in per il
volo diretto ad Abu Dhabi, inganniamo l'attesa passeggiando per il nuovo modernissimo aeroporto.
Lunedì 27 ottobre - Nel cuore della notte arriviamo negli Emirati Arabi.
Breve attesa e nuovo volo per Milano Malpensa, nostra destinazione finale. Sbarcando dall'aereo, non possiamo non notare le condizioni
climatiche; tanto per cambiare anche qui piove. Ci riferiscono, che in Italia, da quando siamo partiti, il tempo è sempre stato
generalmente bello; oggi, dopo un mese, è il primo giorno di pioggia!
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